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Seminario estivo 2011- Rispondere dell’educazione

Lungro 15-17 luglio 2011

Introduzione ai lavori

Resistere, testimoniare o innovare?

Copio questo titolo in parte da “Ottavo convegno internazionale La qualità dell’integrazione scolastica Rimini 2011: resistere o innovare?” indetto da Andrea Canevaro e Dario Ianes.

formazione estiva a LungroDal tempo di Don Milani in poi si sono moltiplicati gli esempi e le testimonianze di un metodo educativo centrato sul dialogo di vita con gli allievi.

Ciò che al tempo di Don Milani era opera di persone dotate di profetica visione e religiosa perseveranza è diventato scienza, tecniche, metodo. Molti di noi hanno imparato come si costruisce una visione, un sogno, hanno rivisitato il mito di fondazione dell’educazione e ne hanno tratto una metodologia; molti di noi hanno imparato come si resiste e si cresce nel logorio di schizofrenici comportamenti istituzionali e devastanti agiti adolescenziali.

I progressi della conoscenza pedagogica e psicologica a livello nazionale ed internazionale hanno fornito solide basi scientifiche e metodologiche alle intuizioni profetiche. I fondamenti di una pratica pedagogica responsabile affondano le radici nella pedagogia sperimentale cominciata forse due secoli fa con le osservazioni di Itard e Seguin giunte a noi attraverso la Montessori e Bruner, e nelle conoscenze psicologiche sull’individuo, il gruppo e il sociale che si sono sviluppate a partire da Freud e suoi importanti successori.

 

Dunque senza dilungarci in una rassegna dei fondamenti della responsabilità pedagogica sappiamo che è possibile formare ed organizzare gli insegnanti e altri operatori della conoscenza per lavorare in modo efficace con i giovani, aiutandoli a realizzare se stessi.

Tuttavia il sistema scuola e i sistemi istituzionali che con esso interagiscono non vogliono capire, si attardano in metodi pedagogici non responsabili, in pratiche didattiche trasmissive, passivizzanti, che collaborano alla stanchezza esistenziale, alla nausea per la parola, alla chiusura relazionale.

Le innovazioni didattiche e pedagogiche, quale più quale meno, se tutto va bene vengono incapsulate nel sistema scuola, confinate in ambiti particolari che non incidono sul corpo della scuola e talora sono addirittura dannose. Molti di noi hanno sperimentato come il migliore dei progetti sperimentali senza essere tradotto nel sistema diventa una specie di cisti, un corpo estraneo che prima o poi va rimosso.

Dunque io credo che la questione centrale è come sia possibile fare quello che decine di migliaia di docenti, che lo hanno sperimentato in prima persona, sanno che si può e si deve fare: ritrovare il senso dell’educazione, dell’alleanza primigenia ed elementare tra un giovane che vuole crescere ed un adulto capace di guidarlo sui sentieri della conoscenza del mondo e della conoscenza di sé.

Per fare questo occorre una moratoria mentale dai veleni in circolazione: non parlare della Gelmini, dell’Invalsi, delle riforme, dei tagli, dei precari, dei concorsi, delle classi di concorso, della valutazione, del programma…. Bisogna riconquistarsi una identità professionale che non sia reattiva, reazione alle idiozie del potere, ma autodeterminata, sovrana.

Bisogna anche uscire dalle nicchie in cui ci hanno confinato, vogliamo parlare di scuola ed educazione senza specificazioni, la scuola che deve essere per tutti e che ha un senso se è per tutti se promuove lo scambio e le relazioni di giovani tra loro diversi e che crescono arricchendosi della diversità. Ogni scuola con interlocutori particolari, sia se si tratti di una élite privilegiata, sia che si tratti di una élite specializzata, sia che si tratti di un ghetto, non è una vera scuola, è un luogo in cui si ‘inculca’ e non dove si educa. Il libero arbitrio dell’Uomo non è un concetto per le dispute tra filosofi ma una pratica sociale, un costrutto organizzativo che riguarda primo di ogni altro i giovani che stanno a scuola. Il cittadino sovrano nasce nella nursery in cui i vagiti sono accolti come segnale comunicativo degno del massimo rispetto e non come fastidio per gli addetti ai lavori.

E quindi dobbiamo pensare che ogni idea di sviluppo su linee che non siano quelle della moltiplicazione delle merci e dei servizi mercificati deve ripartire dall’educazione, dalla socialità, dai legami umani che vengono prima dei legami produttivi e delle stratificazioni sociali. Il senso della scuola per tutti è appunto quello di promuovere legami estesi e diversificati, di promuovere una felice interdipendenza gli uni dagli altri che consente di costruire la vita sociale a partire dalle relazioni e non dal possesso di beni. Non stiamo parlando di comunismo o socialismo, ma di un capitalismo che investa in modo profittevole nelle relazioni piuttosto che nelle merci, di una economia civile che contribuisca a contenere l’invadenza dell’economia delle merci e dei grandi capitali.

Stiamo dicendo che si tratta di un obiettivo educativo per tutti da non riservare agli adepti della decrescita, dello sviluppo eco sostenibile e quant’altro i movimenti civili hanno meritoriamente prodotto e producono ancora. Noi educatori non possiamo mai parteggiare, neppure per il partito dello sviluppo sostenibile, il nostro compito è di assumere il valore educativo delle idee innovative e farne un motore dello sviluppo personale e di una presa di coscienza diffusa, di uno sviluppo umano del territorio.

 

Chi fa lavoro educativo nel meridione ha imparato o dovrebbe imparare che l’educazione non può essere per una finalità pratica: il lavoro, nella stragrande maggioranza dei casi non c’è e se c’è è maledetto e tardivo. La nostra scuola nel migliore dei casi prepara al lavoro dipendente, al lavoro burocratico senza iniziativa e senz’anima, non prepara né all’impresa né a saper mantenere un contegno nelle difficoltà.

L’educazione nel meridione potrebbe essere disinteressata non perché aliena da interessi pratici ma perché manca l’oggetto dell’interesse: in realtà forse possiamo mettere al centro l’interesse per sé, per sviluppare quelle capacità di resistenza e di iniziativa che sono indispensabili a sopravvivere in una economia stagnante e contro i giovani.

Viceversa un’educazione che in modo esplicito o implicito coltivi il mito del posto, del lavoro esecutivo crea solo masse di spostati o di quei ‘facinorosi delle classi medie’ che impestano ogni buona iniziativa politica si voglia prendere in queste disgraziate terre. Bisogna che il captale sociale giovanile ed il capitale di conoscenza che nonostante tutto essi hanno accumulato sia rivendicato non per costruire opposizione o consenso, ma per produrre proposte, iniziative, imprese socialmente significative.

Qual è il mito fondante dell’educazione oggi? Promuovere l’eguaglianza dei punti di partenza per una competizione in cui la posta in gioco è talmente sproporzionata che essa si configura piuttosto come un gioco d’azzardo, oppure promuovere le capacità di iniziativa per fronteggiare situazioni difficili? E la formazione professionale serve ad imparare un mestiere o piuttosto ad acquisire quelle abilità trasversali che sono necessarie ad adottare una indispensabile flessibilità nella gestione delle risorse proprie? Fare le cose bene serve solo quando c’è da rispondere ad un datore di lavoro o anche per se stessi? Diventare cittadini responsabili ed attivi è un obiettivo dell’educazione o è un effetto collaterale – ed indesiderato – dello sviluppo economico mercificato?

Come viene ri-disegnata la mappa dei ‘bisogni’ e dello sviluppo in questa ipotesi, come vengono riorganizzati i marcatori della crescita?

Il passaggio all’età adulta u tempo avveniva in questo ordine: lavoro, posizione sociale, vita di relazione – farsi una famiglia – o vale l’ordine inverso? E’ assurdo pensare che si possa trarre un po’ di felicità o scampoli di reddito dai buoni legami sociali ed essere socialmente attivi prima di avere un ‘posto fisso’ o addirittura senza averlo mai? Dobbiamo attenerci al rozzo materialismo – plebeo e borghese – che antepone il possesso di beni al possesso di Sé, o dobbiamo considerare che le relazioni ed i legami abbiano una forza materiale e con essi la cultura che serve a svilupparli e rinsaldarli?

Se vogliamo riparlare di educazione dobbiamo ripartire da qui, dalla riconsiderazione dei pregiudizi sociologici che ci portano a considerare i giovani come la risultante di tutta la storia precedente e di tutte le condizioni sociali e non anche il frutto della libera autodeterminazione sostenuta dal lavoro educativo.

L’impotenza del singolo insegnante di fronte alla prepotenza del potere, di fronte ai sindacalismi imbelli ed accattoni deriva soprattutto dalla sua subalternità ad un modello culturale che interpreta la realtà sociale e culturale come mera risultante di rapporti di forza materiai ridotti al possesso di beni e merci. Il primo a non credere nella cultura, nell’educazione, nella scuola è proprio l’insegnante.

 

Naturalmente non credo che potremo discutere di temi così impegnativi ma dobbiamo almeno essere consapevoli del loro rilievo e avviare un primo confronto.

 

La mia proposta è che dedichiamo il pomeriggio di venerdì a presentare il nostro lavoro senza intrattenersi sui dettagli, ma piuttosto svolgendo osservazioni e considerazioni riguardo a questi temi così come emergono dalle pratiche.

 

I risultati di questa prima ricognizione saranno riassunti l giorno dopo con una slide show riassuntiva che centra i punti di possibile approfondimento.

Il pomeriggio del secondo giorno può essere dedicato a rimettere insieme i punti di accordo per stendere una sorta di carta per l’innovazione educativa e per il ruolo civile della scuola

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